Può capitare che un ex dipendente di un’azienda, una volta cessata la sua collaborazione con quest’ultima, decida poi di svolgere lo stesso lavoro presso una ditta concorrente, oppure lavorando in proprio, aprendo una propria attività autonoma.
Tuttavia non sempre tale tali attività sono permesse liberamente, stabilendo la legge dei limiti ben precisi, ai quali attenersi nell’esercitare la concorrenza verso un proprio ex datore di lavoro.
L’attività di concorrenza illecita quale concorrenza sleale
E’ il codice civile che regolamenta il caso di specie, all’art. 2598 titolato, appunto “atti di concorrenza sleale”, definendo le ipotesi specifiche in cui vengono commessi atti di concorrenza sleale, da parte di un ex dipendente.
Un ex collaboratore può normalmente continuare a svolgere la stessa attività presso altro datore, o in un’azienda nuova, di sua proprietà: ciò avviene, in molteplici casi, ed è in sé un evento che il datore di lavoro deve mettere in conto. Anche se l’azienda aveva investito in formazione e crescita del proprio dipendente, e pur costituendo questi un valora importante, non è possibile impedirne l’allontanamento, per dimissioni, licenziamento o semplicemente dopo il termine del rapporto di lavoro.
Tuttavia il codice civile stabilisce dei limiti entro i quali tale attività concorrenziale diventa illecita, e può dar luogo a responsabilità, verso il proprio ex datore di lavoro.
Il patto di non concorrenza, come garanzia per il datore
L’ipotesi in cui lo svolgimento di attività lavorative in concorrenza con l’ex datore non è mai possibile, è quella in cui viene fatto firmare al nuovo dipendente un patto di non concorrenza: violare tale patto, anche dopo l’uscita da un’azienda, è sempre illecito.
Il patto di non concorrenza prevede che il dipendente si impegni, per un tempo prestabilito anche dopo la cessazione della propria collaborazione, a non svolgere attività in concorrenza con la propria azienda. Tale strumento è molto efficace, perché permette in modo certo ad un’impresa di tutelare il proprio know-how, impedendo che possa essere sfruttato da un dipendente, o ex dipendente, in suo danno.
Tale strumento è previsto altresì dal codice civile, che ne definisce in modo chiaro il contenuto, all’art. 2125 “patto di non concorrenza”:
“Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.”
Gli elementi più importanti del patto di non concorrenza sono quindi:
1. La forma scritta, pena la nullità del patto stesso. Non è necessario, affinché tale accordo sia valido, che sia parte integrante del contratto di lavoro, potendo essere benissimo oggetto di una pattuizione separata.
2. Definizione dell’oggetto: occorre stabilire cioè quali attività non potranno essere svolte dal dipendente, una volta non più in azienda. Tale limitazione può riguardare sia l’attività svolta in azienda, presso il datore di lavoro originario, sia altre eventuali attività che costui potrebbe svolgere, presso altre imprese. Occorre però valutare l’effettiva potenziale concorrenzialità del nuovo datore di lavoro, oltre che la collocazione che l’ex dipendente andrebbe a ricoprire.
3. La definizione dell’oggetto non deve però essere eccessiva, al punto da non permettere più all’ex dipendente di poter svolgere alcuna attività lavorativa, anche presso terzi: si ricadrebbe nella nullità del patto per eccessiva estensione dell’oggetto.
Afferma infatti la Corte di Cassazione che “il patto di non concorrenza è nullo qualora il vincolo non sia contenuto entro determinati limiti di oggetto e di luogo, cioè quando lo stesso comporti una compressione della concreta professionalità del lavoratore a tal punto da annullarla in pratica, precludendo a quest’ultimo ogni possibilità lavorativa nel suo campo professionale”
Cass. Civ. 4/04/2006, n. 7835
4. Durata predefinita, stabilita chiaramente entro un massimo di 5 anni per i dirigenti, e 3 per gli impiegati. La durata massima non può eccedere tali limiti, ed è automaticamente ridotta entro tali limiti temporali, qualora vengano inseriti tempi più lunghi nel patto.
5. Ambito territoriale: per valutare la validità del patto di non concorrenza, il giudice valuta anche l’estensione territoriale del divieto imposto all’ex dipendente. Quindi un patto avente un oggetto molto ampio, potrebbe non essere ritenuto eccessivo, e quindi nullo, in quanto magari contenuto in un’area geografica molto ristretta.
6. Determinazione di un corrispettivo che deve essere congruo rispetto al sacrificio che dovrà sostenere il lavoratore, contrariamente, il patto sarà nullo. Tale corrispettivo potrà essere liberamente corrisposto sia in costanza di rapporto di lavoro, che al termine dello stesso, in liquidazione.
La concorrenza sleale secondo il codice civile
Così stabilisce la legge, all’art. 2598 del codice civile:
“ Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi [2563, 2568, 2569] e dei diritti di brevetto [2584, 2592, 2593], compie atti di concorrenza(1) sleale chiunque:
1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione [2564] con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;
2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente(2);
3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda [1175, 2599, 2600].”
Si ha confusione nei casi in cui l’imprenditore cerca di creare un falso convincimento, nella clientela , che i suoi prodotti siano provenienti da altro imprenditore, ovvero il suo ex datore di lavoro.
Si ha invece l’imitazione servile nei casi in cui l’ex dipendente crea un nuovo prodotto, violando però un brevetto, appartenente alla sua ex società, oppure sfruttando semplicemente delle informazioni di carattere riservato, che non avrebbe potuto conoscere se non fosse stato dipendente dell’ex datore di lavoro.
Il terzo caso, più ampio, ricomprende tutte quelle fattispecie illecite, non riconducibili alle prime due, ovvero la c.d. concorrenza sleale.
Lo sviamento della clientela quale forma di concorrenza sleale
Lo sviamento della clientela deve essere contestualizzato: distogliere la clientela da un concorrente, fa parte delle leggi del commercio, ed è quindi lecito. Tuttavia, se tale risultato viene raggiunto con dei mezzi inappropriati, da un punto di vista legale, allora si ricade nell’illecito, e quindi nella concorrenza sleale.
Ad esempio, se un agente di commercio riesce a sviare la clientela da un concorrente, però sfruttando informazioni riservate, acquisite quando era alle dipendenze di quest’ultimo, commette un illecito.
Informazioni riservate possono essere, ad esempio: il listino dei prezzi, le condizioni di vendita, caratteristiche, schede tecniche dei prodotti, l’anagrafica di clienti e venditori, fornitori etc.
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