Il decreto legislativo 231 del 2001 introduce per la prima volta nell’ordinamento italiano la responsabilità da reato per gli enti collettivi, sancendo il definitivo superamento del principio “societas delinquere non potest” e rappresentando così la svolta normativa necessaria per fronteggiare il preoccupante dilagare di un particolare tipo di illeciti: i White Collar Crimes.

Il termine, coniato nel 1939 dal sociologo americano Edwin Sutherland, definiva (con una scelta contenutistica che ora fa sorridere perché “d’altri tempi”, figlia di una società marcatamente classista) un “reato commesso da una persona di rispettabilità e di alto status sociale nel corso della propria occupazione”, attirando l’attenzione sul problema dei reati commessi da o a favore di enti collettivi e su tutte le questioni che da questi derivano.

Emerge subito un contrasto con l’art. 27 della Costituzione, uno tra i fondamentali principi del diritto penale, secondo cui “la responsabilità penale è personale”: di un reato risponde solo il soggetto agente.
Attenersi a questo postulato comporta inevitabilmente l’impossibilità che si configuri una responsabilità penale in capo ad un ente collettivo, sia in quanto gruppo di individui, sia in quanto persona giuridica.

La formulazione del decreto legislativo 231 del 2001 riesce ad evitare l’attrito con il principio espresso all’art. 27, prevedendo per l’ente a vantaggio di cui è stato commesso il reato una responsabilità amministrativa, mantenendo nel contempo l’efficacia deterrente della responsabilità penale: il procedimento di matrice sostanzialmente penale e altre scelte procedurali, come l’inversione dell’onere della prova, lasciano intendere quanto fosse pregnante per il legislatore del 2001 trovare una soluzione efficace contro il problema dei reati societari.

E’ interessante inoltre sottolineare che l’opera del legislatore manifesta come interesse prominente non tanto quello di punire le condotte illecite, quanto piuttosto di prevenirne il verificarsi.
Per prevenire la commissione di reati commessi da un singolo a vantaggio di un ente collettivo, il decreto legislativo 231 del 2001 si focalizza innanzitutto sul ridurre l’occasione di commissione del reato, demandando all’ente l’individuazione delle c.d. aree di rischio-reato, la predisposizione di regole di comportamento interne chiamate “modelli”, l’organizzazione dell’operato dell’ente secondo protocolli e procedure, il cui rispetto viene assicurato con l’istituzione di organismi di vigilanza per un assiduo controllo.

Eppure, un’obiezione è lecita: non trovando nel testo normativo una chiara indicazione dell’obbligatorietà di quest’opera preventiva, perché mai un ente trarrebbe vantaggio dall’attuarla?

A questo scopo, il legislatore si serve di un meccanismo che concettualmente rimanda all’onere: nel caso in cui si verifichi la commissione di un reato a favore dell’ente collettivo, esso beneficerà dell’esenzione da responsabilità se potrà dimostrare (e qui l’inversione dell’onere della prova) di aver fatto tutto il possibile per evitarlo. Come? Proprio con l’azione preventiva descritta nelle righe precedenti, scandita dalle operazioni “suggerite” dal legislatore.

 

I reati presupposto

 

Una delle sezioni più dense del testo normativo è quella riguardante i c.d. reati presupposto, cioè quelle fattispecie incriminatrici per cui è prevista la configurazione di responsabilità amministrativa da reato per gli enti collettivi. In un approccio pragmatico, il legislatore del 2001 (e successive molteplici integrazioni) ha elencato i reati più comuni commessi nell’ambito di organizzazioni come imprese, società, associazioni.

Gli esempi più emblematici sono:

• Indebita percezione di erogazioni
• Truffa ai danni dello stato o di un ente pubblico
• Frode ai danni dello stato o di un ente pubblico
• Conseguimento di erogazioni pubbliche
• Aggiotaggio
• Manipolazione del mercato
• Insider trading
• False comunicazioni sociali
• Reati contro la pubblica amministrazione
• Reati societari e ambientali

Il problema di quest’elencazione, quantomeno all’origine, risiedeva nella mancata considerazione di alcuni tipi di attività degli enti collettivi, rifugiandosi nei tipi di illecito più comuni. Il rischio è chiaramente quello di lasciare “scoperti” interi ambiti di operatività dell’azione criminale; tuttavia, negli anni si è provveduto alla risoluzione del problema ampliando l’elenco dei reati presupposto.

 

I soggetti destinatari della normativa

 

L’ambito di efficacia soggettiva del suddetto decreto è descritto dalla sua denominazione: “persone giuridiche, società e associazioni anche prive di personalità giuridica”; restano esclusi lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono un ruolo di rilievo costituzionale e gli enti pubblici non economici.

Il d. lgs. 231/01 stabilisce la responsabilità dell’ente per gli illeciti compiuti dai propri dipendenti, nello specifico da quelli che ricoprono un ruolo apicale nell’organizzazione interna.
Si presume infatti che, a meno che non provi il contrario, l’ente tragga vantaggio nella commissione del reato ad opera di un singolo membro; si configura quindi una sorta di presunzione di “complicità” nel compimento del fatto illecito. Il datore di lavoro ha la facoltà di tutelarsi da eventuali azioni legali se dimostra di aver attuato ed adottato in maniera efficiente un modello di gestione, organizzazione e controllo idoneo a prevenire i reati inclusi nel suddetto decreto legislativo. Infatti, nel presente decreto legislativo 231/01, l’azienda risponde anche nel caso in cui non ha vigilato in maniera efficace ad impedire la commissione dei reati presupposto.

 

I modelli

 

L’ente nel cui vantaggio venga commesso il reato ha la possibilità di beneficiare dell’esenzione da responsabilità se dimostra di aver predisposto ed efficacemente adottato delle regole interne di comportamento, sostanziate in modelli di organizzazione e gestione.

Tali modelli hanno in primo luogo l’obiettivo di prevenire la commissione di reati all’interno dell’ente, attraverso l’accurata analisi delle varie parti in cui opera l’ente.
Inizialmente è necessario analizzare gli ambiti di operatività dell’ente, quindi di individuare le attività da esso svolte, al fine di determinare e circoscrivere le aree di rischio-reato: quelle attività, cioè, dove è più probabile trovare l’occasione per commettere un reato connesso all’ente.

Il modello di gestione prevede inoltre la predisposizione di protocolli e procedure, il cui rispetto viene controllato da organismi di vigilanza istituiti ad hoc, al fine di predisporre preventivamente le modalità di svolgimento delle attività e ridurre così al minimo le occasioni di commissione di reati.

 

Le sanzioni previste

 

In ultimo, nei confronti degli enti collettivi cui è destinata la normativa, che siano trovati responsabili per un reato commesso da un proprio dipendente o da persone fisiche correlate all’ente stesso o appartenente alla sua struttura organizzativa, si profila un fornito sistema sanzionatorio che include:

• Sanzioni amministrative
• Sanzioni pecuniarie
• Sanzioni interdittive
• La confisca dei beni
• La pubblicazione della sentenza di condanna.

Share This